Luca Mencarelli

AAA Umani Cercasi di Luca Mencarelli

AAA Umani Cercasi

AAA Umani Cercasi di Luca Mencarelli - (copertina di Giorgio Bonaccorsi)

Cosa fareste se foste l'ultimo essere umano sulla Terra? Ma stavolta niente apocalissi zombie o invasioni aliene, semplicemente un morbo letale ha falcidiato l'umanità, evitandovi accuratamente. State tranquilli però, nel 2423 saranno i robot a pensare a ogni vostra esigenza, quindi non rischiate di morire di fame.
Avete un intero pianeta a disposizione e un esercito di macchine pronte a servirvi. Cosa potreste desiderare di più? Magari solo un po' di compagnia, proprio come il protagonista, che decide di lasciare la monotona sicurezza della sua esistenza e mettersi in viaggio alla ricerca dei superstiti della sua razza.
Un’avventura alla scoperta di ciò che c’è là fuori, ma che parte e si conclude lì dove, in fondo, risiede ogni risposta.

Scheda
Titolo: AAA Umani Cercasi
Autore: Luca Mencarelli

Introduzione: Piergiorgio Zucconi
Lato B: Mendoza di Fabrizio Monari
ISBN: 978-88-99147-56-3
Formato: epub, mobi e pdf
Prezzo: 1,99€ (0,99€ fino al 16 settembre 2017)
Lunghezza a stampa: 106 pagine
Genere: Fantascienza
Recensioni: Anobii, Goodreads, Bookville, Booklikes
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L’ultima missione

di Luca Mencarelli

Il barone de la Crochelle passò la mano tremante sulla mensola, tra gli scheletri di bestie esotiche, alcune sconosciute ai più, fino ad incontrare il cannocchiale. Quel tubo stretto e lungo, da cui tante volte aveva osservato la volta celeste perdendosi nello stupore della contemplazione di mondi lontani. Aveva faticato enormemente per procurarsi le lenti adatte, della curvatura giusta e prive di imperfezioni, ma quando finalmente ci era riuscito la gioia era stata incontenibile. Chissà se avrebbe di nuovo avuto l’occasione di esplorare il cielo stellato nelle notti serene.

Poi si rivolse al minioculo, sistemato su un basso tavolino un po’ più in là. Soffiò via il sottile velo di polvere che lo avvolgeva come una crisalide eterea e osservò i minuti frammenti di pulviscolo danzare nella luce del mattino. Ormai cominciava ad essere vecchio per occuparsi da solo della pulizia della casa, e anche sua figlia aveva altro a cui pensare, tuttavia non avrebbe mai permesso che qualcun altro, un essere umano dotato di intelletto e dignità proprio come lui fosse costretto a servirlo. Un’idea del genere, per quei tempi, era strana, se non addirittura dannosa, ma sapeva che sarebbe venuto il giorno in cui…

Troncò le fantasticherie e riprese a concentrarsi sull’arnese che aveva di fronte. Se il precedente lo aveva guidato attraverso l’infinitamente grande, con questo si era immerso nell’infinitamente piccolo. Quanti misteri dell’universo scrutati e dissezionati attraverso quegli oggetti! Quante meravigliose giornate e nottate trascorse ad esaminare il mondo circostante, a raccogliere dati, ad esplorare la natura! E a migliorarla. Posò il minioculo e si voltò verso uno strano marchingegno che riposava in un angolo della stanza, un groviglio di fili che si inerpicavano su per una gabbia di ossa bronzee che disegnavano una forma vagamente umana, al cui interno si intravedeva un fiorire di ruote dentellate, cavi metallici, contrappesi e ingranaggi. A vederlo così poteva sembrare nient’altro che un cumulo di rottami, relitto abbandonato di un’epoca ormai perduta, ma durante i suoi giorni d’oro era stato l’attrazione dell’intera corte, avvolto in ricche vesti e dotato di una maschera che simulava un volto maschile, e i nobili di tutto il regno venivano a Parìs solo per godersi lo spettacolo di quel manichino che si muoveva da solo, danzava e suonava un rudimentale violino. Una patina di malinconia avvolse gli occhi del barone. Quelli erano davvero tempi migliori, quando il palazzo brulicava delle menti migliori del regno e grazie ai suoi macchinari, molti dei quali permettevano di alleggerire il lavoro umano, il sogno di una nuova giustizia sociale sembrava a portata di mano. Invece si era illuso… E pensare che era stato il suo stesso ingegno a condannarlo…

Si cacciò la mano in tasca. Il fazzoletto era lì, avvolto intorno a quel corpo metallico. Una smorfia di amarezza gli si disegnò sul volto. Come gli era venuto in mente di costruire una diavoleria simile?

Un frastuono improvviso lo strappò all’abbraccio dei ricordi. Qualcuno stava bussando con violenza alla porta. Sapeva già di chi si trattava e cosa volesse. Ormai non c’era più tempo. Avrebbe voluto soffermarsi più a lungo in quelle stanze, tra le invenzioni che avevano scandito la sua vita e a cui la sua stessa esistenza era indissolubilmente intrecciata, cullandosi in seno alle memorie di un passato nostalgico. Ma doveva andare. La sua unica consolazione era che lasciava quel patrimonio in buone mani: sua figlia era una ragazza in gamba, e se fossero venuti a cercarla lei se la sarebbe senz’altro cavata. Non era riuscito a salutarla come avrebbe voluto, e quello era il rimpianto maggiore, ma lei avrebbe capito anche questo.

Si incamminò a passo svelto verso l’uscita sul retro, che dava su una stradina ombrosa e poco trafficata. Arrivato sulla soglia si fermò un istante. Si voltò ancora una volta ad ammirare il mondo che stava per abbandonare per sempre ed infine uscì. Aveva un’ultima missione da compiere, e l’avrebbe portata a termine a qualsiasi costo.
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Nel Nome del Peccato

di Luca Mencarelli

Gli occhi bianchi saettavano vispi lungo la pagina, balzando di parola in parola, assorbendo avidamente ogni significato intriso in quei minuti caratteri neri, come stille di conoscenza che penetravano nella sua mente imprimendovisi a fuoco. Rischiarato dalla tremolante luce di una candela, incerta ogni secondo se proseguire la sua silenziosa danza sullo stoppino annerito o sciogliersi in un singulto di fumo biancastro, Gerico era totalmente immerso nella lettura dell’antico tomo. L’alone giallognolo che lo avvolgeva degradava fino a spegnersi in un’oscurità assoluta, che cancellava i muri della stanza, donando alla scena un’atmosfera irreale, una sorta di sogno dimenticato oltre i confini dello spazio e del tempo. L’unico elemento dissonante era il fruscio delle pagine, sfogliate con gesti rapidi e accurati, al fine di preservarne la preziosa integrità, ma intrisi di una furiosa impazienza.
Tutt’intorno il mondo taceva. Persino la tempesta si era placata, come a non voler disturbare gli studi di Gerico, e la fortezza aveva già smesso da molte ore di risuonare dei passi delle guardie e degli ultimi discepoli che si erano attardati nella sala delle preghiere.
Improvvisamente un soffio gelido alitò attraverso l’ampia volta rocciosa della stanza, facendo vacillare pericolosamente la fiammella. Gerico si strinse nel suo pesante mantello nero, senza staccare lo sguardo dal foglio. Una domanda fugace gli solcò l’oceano di pensieri, “quando avrà mai fine questo inverno perenne?”. Ma si era già spenta prima di potersi fissare nella mente, fagocitata da quel fiume di parole scaturito dalle pagine.
“…la piaga è il marchio del peccato, dono di nostro Signore, segno della Sua benevolenza e della nostra debolezza. Nel Nome del Peccato alziamo a Lui i nostri canti di espiazione. Maledetto colui che cancella il peccato, possa egli vivere mille inferni e bruciare in eterno tra le anime dannate…”
-Dovresti essere nella tua cella a riposare a quest’ora.- Una voce, solenne e arcana, che sembrava sgorgata dalle stesse pareti di pietra, lo raggiunse come un richiamo dall’oltretomba.
-Il male non riposa mai, come potrei farlo io?- Rispose Gerico, per nulla sorpreso, proseguendo la lettura.
-Dovresti farlo invece, o quando sarà il momento di affrontarlo ti ritroverai stanco e impotente.-
-Sarò pronto per quel momento.-
-Allora dovrai esserlo sempre. Il male non avvisa quando sta per colpire.-
-Sarò io a colpirlo per primo.-
-Eccellenti risposte. I tuoi studi stanno dando i loro frutti.-
-La conoscenza è potere, e attraverso esso noi eradicheremo il male che si annida in questo mondo.-
-È giunto per te il tempo di entrare in azione. Sei uno dei nostri migliori elementi, e abbiamo una missione che solo tu puoi svolgere. Avvicinati.-
Gerico si alzò, stagliandosi in tutta la sua imponente altezza. Aveva un fisico filiforme ma muscoloso, avvolto in una veste nera con ricami rossi, stretta in vita da una fascia bordeaux su cui era ricamato il simbolo della Santa Congregazione degli Espìanti. Si mosse leggero fino al limitare dell’oscurità, inginocchiandosi ai piedi della figura nascosta tra le tenebre.
-Sono al suo servizio Maestro.-
-Ci è giunta voce che un nuovo curandero ha intrapreso il suo viaggio. Il tuo compito è inseguirlo, braccarlo, catturarlo e scoprire il luogo in cui è diretto. È di vitale importanza che tu ottenga quest’informazione, ne va della sopravvivenza dell’Ordine e del mondo stesso.-
-Non la deluderò Maestro.-
-Ne sono certo. Conosci bene quale sarebbe la tua punizione in caso di fallimento.-
-Quali sono i suoi comandi?-
-Raduna le tue cose, partirai domani all’alba per le terre dell’ovest. Ti forniremo una scorta, e ovviamente avrai l’appoggio di tutti i centri della Congregazione sparsi sul territorio.-
-Abbiamo qualche notizia sul curandero?-
-Non molte. Il tuo compito sarà anche di raccoglierne altre. Adesso vai in pace, e che il tuo fardello ti accompagni.-
-Possa io soffrire per tutti i miei peccati.-
Così come repentinamente era apparsa, l’ombrosa figura si dissolse lasciando Gerico da solo. L’inquisitore sogghignò, leccandosi con la lingua guizzante le labbra viola e livide. La caccia aveva inizio.
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La gloria degli Ascarot

di Luca Mencarelli

Perché si trovava lì? Per la gloria? Per il denaro? Per l’abbraccio voluttuoso delle ragazze che lo attendevano in città, se fosse riuscito a tornare? Abenor deglutì, sforzandosi di pensare ai loro corpi sinuosi che lo accendevano di desiderio e alle monete tintinnanti che cadevano nella sua mano. Poi serrò il pugno sull’elsa della spada, e la sensazione del ferro amico riuscì ad infondergli un po’ di coraggio, ricordandogli perché si trovava lì.
La marcia era stata lunga e faticosa, e la pesante armatura ribolliva sotto il sole cocente. Ma finalmente erano giunti a destinazione. Una poderosa armata di uomini valorosi e forti era pronta a scendere in battaglia nella vallata. Di fronte a loro stava la porta, possente ed arcana, a protezione del varco tra le montagne di Godard, e al di là di essa la misteriosa terra degli Eolin, strabordante di ricchezze e meraviglie. Se non fosse stato per quella dannata porta…
Abenor alzò gli occhi verso l’enorme pietra di ametista. Su di essa erano scolpite parole fumose, un invito e un monito per tutti i temerari che avessero osato tentare di superarla.

Non c’è nulla al di là di questa porta
Solo chi muore può entrare a patto che continui a respirare

Cosa significava? Come si può morire continuando a respirare? Abenor non lo sapeva, e tutto sommato non gliene importava poi molto. Quando avessero distrutto l’entrata e fossero penetrati nei territori degli Eolin lo avrebbero chiesto direttamente a loro. A patto che ne rimanesse qualcuno da interrogare dopo il massacro…
Il suono roboante e crescente di un corno accarezzò i morbidi declivi erbosi che circondavano la valle. Era il segnale dell’attacco. Abenor si calò la visiera dell’elmo sul viso e inspirò profondamente. Prima di lanciarsi contro il nemico infilò la mano tra la corazza e la cotta di maglia, estraendo un ciondolo che teneva appeso al collo.
-Questo amuleto apparteneva a mio padre, e a suo padre prima di lui. Si tramanda da generazioni nella nostra famiglia e adesso voglio che sia tuo. Al suo interno è racchiusa una magia molto antica e potente, che ti proteggerà da qualsiasi male.- Erano state le parole di suo padre quando glielo aveva donato, prima di partire anch’egli, molti anni prima sotto il regno di re Hhasi I, verso quello stesso campo di battaglia, doveva aveva trovato la morte. Da allora aveva giurato che lo avrebbe vendicato, per l’onore della nobile famiglia Ascarot. Dopo la scomparsa del genitore l’intero casato era caduto in rovina, e lo splendore passato si rispecchiava ormai solo sui lineamenti fieri del suo volto, sulla sua chioma dorata e sul suo corpo scolpito. Sua madre e le sue sorelle conducevano una vita misera, costrette a lavori ignobili per pochi soldi e a mendicare un tozzo di pane. Che destino insopportabile per chi una volta si era trovato ai vertici della nobiltà!
Ma lui avrebbe sconfitto gli Eloin, conquistato le loro terre e riportato gli Ascarot ai fasti di un tempo. Chissà, magari avrebbe potuto puntare anche più in alto, al trono stesso… Tutti sapevano che re Amdir II era un folle incapace, e forse il regno avrebbe beneficiato di un nuovo sovrano…
Ora però non c’era tempo per perdersi in simile fantasie, la battaglia era iniziata, e già lo stridio delle spade che cozzavano tra loro si levava tra le grida dei soldati. Abelor lanciò un urlo di guerra e si gettò nella mischia.
Ma l’impeto si arrestò quando vide apparire di fronte a sé la sagoma torreggiante di uno dei quattro guardiani. I suoi compagni, più avanti, cadevano come fuscelli spazzati dalla tempesta sotto i movimenti rapidi e letali della creatura, mentre una pioggia di sangue mulinava tutt’intorno. D’un tratto la paura tornò a bussare alle porte del suo animo, sciogliendo in un istante i suoi sogni di fama e ricchezza.
Mentre sentiva il suo cuore schizzare via dal petto Abenor si chiese con l’ultimo barlume di coscienza perché l’amuleto non lo avesse protetto. Non poteva sapere che nessuna magia poteva salvarlo dal male che albergava in lui stesso.
http://www.wizardsandblackholes.it/?q=gliuominidoro.

Dei o straccioni?

di Luca Mencarelli

Apparvero all’orizzonte di una mattina come tante, un puntino nero che vacillava sulla cresta delle dune. Poi si scisse in una figura, due, dieci, un’intera folla che avanzava tremolando sullo sfondo sabbioso. Saliva in alto, sul picco di una duna, e poi sprofondava in basso, fino a riapparire sopra a quella successiva, un po’ più vicino. Un continuo saliscendi che rifletteva sul paesaggio i tratti dell’animale simbolo di quell’ambiente: il dromedario.
Alla fine, quando furono a circa metà di tiro d’arco dall’accampamento, io e gli altri ragazzini potemmo distinguerli con precisione dall’alto delle palme su cui ci eravamo arrampicati. Una processione muta e cenciosa di vecchi, donne e bambini che si trascinava stancamente crinale dopo crinale. Granello dopo granello.
Chi erano? E soprattutto, da dove venivano? A giudicare dalla posizione del sole, che batteva impietoso di fronte a loro, provenivano da occidente, ma tutti sapevamo che era impossibile. Sì, perché al di là del mare di sabbia si innalzavano gli impenetrabili monti che segnavano la fine delle terre abitate. E più oltre l’oceano delle acque che abbracciava l’intero mondo. Così ci avevano insegnato, sebbene fosse difficile per noi immaginare una tale distesa marina, abituati come eravamo alle sporadiche polle che emergevano qua e là insieme alle palme. Se nessuno, oltre a noi e alle tribù più a sud, abitava in questa parte di deserto, chi potevano essere quegli sconosciuti? Il timore e la curiosità montavano in noi, di pari passo con il loro tragico incedere.
Il sole aveva ormai compiuto metà del suo tragitto nel cielo, e per allora la notizia degli stranieri in avvicinamento si era ormai sparsa tra le tende, quando essi giunsero al limitare del campo. Senza dire una parola vennero scortati dagli adulti fino alla tenda centrale, per essere rifocillati e riposare, come si usa fare tra i popoli del deserto quando si incontra qualcuno in difficoltà. Prima lo si aiuta, poi ci si conosce.
Mentre ci passavano davanti li osservammo meglio. I loro abiti, sebbene logori e coperti di sudicio, emanavano una flebile bellezza, lo splendore residuo di un tessuto prezioso e a noi sconosciuto, e allo stesso tempo davano l’idea delle peripezie che dovevano avere affrontato nel lungo tragitto fin lì. I loro occhi erano velati di una patina grigia, come se il vento del deserto vi avesse depositato l’intera polvere che ricopre quelle distese desolate, ma in fondo a quelle orbite si poteva ancora notare uno scintillio ardente. Estrema testimonianza di un antico orgoglio tenace a morire. Il dettaglio che però ci colpì di più fu il loro portamento. Le loro schiene erano piegate. Ma non per la stanchezza, no, anche noi conoscevamo le fatiche di quelle traversate, e avevamo visto altri stranieri ridotti ben peggio di loro. No, non erano incurvati a causa della stanchezza, la ragione doveva essere un'altra. Era come se portassero su di sé il peso di tutti i peccati di questo mondo.
Dei nobili decaduti. Questa l’idea che ci facemmo.
-Sono tornati.- Disse il vecchio Assouf, masticando quelle parole sibilline insieme a qualche dattero, e mentre noi ci chiedevano che senso potessero avere, scomparve all’interno della sua tenda.
La sera, stretti intorno al fuoco per scacciare via il freddo delle lunghe notti sahariane, gli stranieri si unirono a noi. Allora, davanti alle fiamme tremolanti che si riverberavano sulle rughe dei loro volti, potemmo vederli da vicino, e ci rendemmo conto che la nostra prima impressione era sì giusta, ma sfiorava solo pallidamente la realtà. Le dita lunghe e affusolate appartenevano a mani di sovrani, non di lavoratori. Le facce riarse tradivano una pelle non abituata al sole impietoso del deserto. Lo sguardo era quello triste e fiero di chi un tempo contemplava le stelle e adesso è costretto a fronteggiare la miseria.
Quelli non erano semplici nobili. Si trattava di dei. Dei scacciati dai cieli.
Sedevano insieme, ammucchiati come un gregge spaventato, e nonostante l’aiuto ricevuto sembravano timorosi di noi.
-Da dove venite?- Chiese il nostro capotribù.
Ma dalle loro espressioni interrogative deducemmo che non capivano la nostra lingua.
Si fece allora avanti il vecchio Assouf, il custode della storia. La conoscenza del passato della nostra tribù gli era stata tramandata da suo nonno, che aveva ricoperto quel ruolo prima di lui, e ancor prima c’era stato il nonno di suo nonno, e così via in una catena interminabile di generazioni che risaliva fino all’origine del cielo e della terra. L’anziano dischiuse le labbra sdentate e fece uscire un suono melodioso, un siero di tè e miele che ci incantò tutti. Un amalgama di parole sconosciute, mai udite prima, che profumavano di paesi remoti nello spazio e nel tempo.
Nell’udirle, quelli ebbero un sussulto all’unisono. Evidentemente avevano capito il significato della frase. Un uomo, che dall’aspetto sembrava aver superato di molte lune l’età media di un uomo, si fece avanti. E mentre le lacrime cominciavano a incanalarsi lungo i suoi lineamenti crepati, rispose con una cantilena, a metà tra un lamento e una preghiera:
-Atlantide.-
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