L'Orologio della Verità

L’ultima missione

di Luca Mencarelli

Il barone de la Crochelle passò la mano tremante sulla mensola, tra gli scheletri di bestie esotiche, alcune sconosciute ai più, fino ad incontrare il cannocchiale. Quel tubo stretto e lungo, da cui tante volte aveva osservato la volta celeste perdendosi nello stupore della contemplazione di mondi lontani. Aveva faticato enormemente per procurarsi le lenti adatte, della curvatura giusta e prive di imperfezioni, ma quando finalmente ci era riuscito la gioia era stata incontenibile. Chissà se avrebbe di nuovo avuto l’occasione di esplorare il cielo stellato nelle notti serene.

Poi si rivolse al minioculo, sistemato su un basso tavolino un po’ più in là. Soffiò via il sottile velo di polvere che lo avvolgeva come una crisalide eterea e osservò i minuti frammenti di pulviscolo danzare nella luce del mattino. Ormai cominciava ad essere vecchio per occuparsi da solo della pulizia della casa, e anche sua figlia aveva altro a cui pensare, tuttavia non avrebbe mai permesso che qualcun altro, un essere umano dotato di intelletto e dignità proprio come lui fosse costretto a servirlo. Un’idea del genere, per quei tempi, era strana, se non addirittura dannosa, ma sapeva che sarebbe venuto il giorno in cui…

Troncò le fantasticherie e riprese a concentrarsi sull’arnese che aveva di fronte. Se il precedente lo aveva guidato attraverso l’infinitamente grande, con questo si era immerso nell’infinitamente piccolo. Quanti misteri dell’universo scrutati e dissezionati attraverso quegli oggetti! Quante meravigliose giornate e nottate trascorse ad esaminare il mondo circostante, a raccogliere dati, ad esplorare la natura! E a migliorarla. Posò il minioculo e si voltò verso uno strano marchingegno che riposava in un angolo della stanza, un groviglio di fili che si inerpicavano su per una gabbia di ossa bronzee che disegnavano una forma vagamente umana, al cui interno si intravedeva un fiorire di ruote dentellate, cavi metallici, contrappesi e ingranaggi. A vederlo così poteva sembrare nient’altro che un cumulo di rottami, relitto abbandonato di un’epoca ormai perduta, ma durante i suoi giorni d’oro era stato l’attrazione dell’intera corte, avvolto in ricche vesti e dotato di una maschera che simulava un volto maschile, e i nobili di tutto il regno venivano a Parìs solo per godersi lo spettacolo di quel manichino che si muoveva da solo, danzava e suonava un rudimentale violino. Una patina di malinconia avvolse gli occhi del barone. Quelli erano davvero tempi migliori, quando il palazzo brulicava delle menti migliori del regno e grazie ai suoi macchinari, molti dei quali permettevano di alleggerire il lavoro umano, il sogno di una nuova giustizia sociale sembrava a portata di mano. Invece si era illuso… E pensare che era stato il suo stesso ingegno a condannarlo…

Si cacciò la mano in tasca. Il fazzoletto era lì, avvolto intorno a quel corpo metallico. Una smorfia di amarezza gli si disegnò sul volto. Come gli era venuto in mente di costruire una diavoleria simile?

Un frastuono improvviso lo strappò all’abbraccio dei ricordi. Qualcuno stava bussando con violenza alla porta. Sapeva già di chi si trattava e cosa volesse. Ormai non c’era più tempo. Avrebbe voluto soffermarsi più a lungo in quelle stanze, tra le invenzioni che avevano scandito la sua vita e a cui la sua stessa esistenza era indissolubilmente intrecciata, cullandosi in seno alle memorie di un passato nostalgico. Ma doveva andare. La sua unica consolazione era che lasciava quel patrimonio in buone mani: sua figlia era una ragazza in gamba, e se fossero venuti a cercarla lei se la sarebbe senz’altro cavata. Non era riuscito a salutarla come avrebbe voluto, e quello era il rimpianto maggiore, ma lei avrebbe capito anche questo.

Si incamminò a passo svelto verso l’uscita sul retro, che dava su una stradina ombrosa e poco trafficata. Arrivato sulla soglia si fermò un istante. Si voltò ancora una volta ad ammirare il mondo che stava per abbandonare per sempre ed infine uscì. Aveva un’ultima missione da compiere, e l’avrebbe portata a termine a qualsiasi costo.
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Cos'e' la magia?

di Chiara Cini

- Secondo te che cos'è la magia, Davronche?
-Mah... non lo so. Forse un qualcosa che ti consente di guadagnare un mucchio di bei soldi senza fare niente, cara la mia Némilie!
Némilie alzò le spalle leggermente scuotendo la testa, come a voler dire all'amico di sempre che era proprio uno sciocco.
Doveva assolutamente capire che cosa le stava accadendo ma non trovava nulla che le desse una concreta indicazione.
Aveva in mano solo quello strano orologio, rubato dalla tasca di quel signore così spaventato, e da allora le erano successe tutte quelle vicende strane.
Chi avrebbe potuto aiutarla? Provò ancora ad incalzare l'amico.
- Davronche, secondo te c'è a Pàris qualcuno che mi possa dire quanto vale quest'oggetto senza chiamare i gendarmi?
- Nella strada dei ricettatori puoi sentire chi vuoi, magari ti accompagno io, per essere più sicuri.
- No, sciocco, se avessi voluto andare là lo avrei fatto ieri sera, prima che accadessero questi episodi, prima che voi vi comportaste in maniera bislacca con me,”ribattè Némilie.
Avrebbe dovuto cercare di capire il mistero di quell'orologio da sola, senza coinvolgere più del necessario i suoi amici.
Sperava solo di avere il tempo di uscire da quel guaio senza che nessuno si facesse male. Ma il rumore che proveniva dalla strada le indicò chiaramente che non aveva più tempo per pensare.

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Alla corte del Re

di Luca Pappalardo

Certi uomini, pur di presenziare alla corte del Re, sarebbero stati disposti a tutto. Vi erano favori che solo il Re poteva concedere, e quegli uomini lo sapevano bene. Accedere alla sua corte non era cosa facile, certo, e talvolta quegli stessi uomini si ritrovavano a dover pagare un prezzo a cui si immaginavano disposti solo nella fantasia (scontrandosi spesso con una realtà differente). Ma chi aveva il coraggio di fare quanto necessario, raramente finiva per rimpiangere la propria scelta.
Altri uomini, di più modeste ambizioni e di minor coraggio, preferivano (nell'inseguire i propri scopi) affidarsi alla legge del sovrano di Parìs, confidando nella bontà dell'ordine costituito.
Mentre scivolava lungo i vicoli bui di Montjaune, Davronche aveva pochi dubbi su quale monarca meritasse la sua ammirazione. Che signorotti e leccaculo restassero pure attaccati alle sottane del Re imparruccato e incipriato: lui avrebbe ottenuto il favore del vero Re.
Dove, nelle ore più buie della notte, anche i gendarmi si infilavano con cautela: quella sì era una Corte regale che sarebbe valsa la pena vedere! Fra melma, reietti e puttane, nelle profondità di una cava di calcare abbandonata, regnava l'uomo che aveva ottenuto il rispetto di tutta la feccia parigina: Nadrien, re dei farabutti, nume dei disperati, principe dei ladri.
A metà fra uomo e mito, Nadrien era il genere di lestofante sul quale le leggende si sprecavano: quella preferita di Davronche lo voleva accerchiato dai gendarmi dopo un colpo fallito, prossimo ad essere trafitto da una baionetta. Con la sola mano destra avrebbe afferrato la lama dell'arma, fermandone l'avanzata, e con la sinistra avrebbe abbattuto il gendarme in un singolo colpo, per poi fuggire dalle altre guardie troppo attonite per reagire.
Per un ragazzino giovane come Davronche non era stato facile arrivare a lui: c'erano voluti tempo, fatica e capacità di sopportazione. Ma alla fine era riuscito a farsi notare, superando la diffidenza e il divertimento di chi lo riteneva solo un ladruncolo fra tanti. Dopo mesi di fatica, sforzi e domande, uno degli uomini di Nadrien l'aveva avvicinato. Non il pezzo grosso in persona, ovviamente: un pivellino come lui non poteva certo sperare di incontrarlo subito, così, come se niente fosse. Ma era un buon inizio: se avesse voluto entrare nei ranghi del Re, avrebbe dovuto provare il suo valore con un gesto simbolico.
Il compito che gli avevano affidato era tanto semplice quanto grottesco: penetrare di notte nel Cimitero degli Ingenui e rubare il femore di un cadavere.
Al riparo dietro la Chiesa dei Poveri Ingenui, Davronche fissò con occhi velati di terrore lo spettacolo che gli si parava davanti: il luogo era oramai diventato impraticabile. Negli anni precedenti le piogge, complice l'uso eccessivo che era stato fatto dello spazio, avevano trasformato il suolo funerario in una macabra composizione di fango e morte. I cadaveri sporgevano dal terreno, alcuni parzialmente decomposti, altri quasi scheletri. Alcune tombe erano state sommerse dalla melma, altre avevano le lapidi distrutte. Trovare un femore non sarebbe stato difficile: gettarsi a capofitto in quel ricettacolo di orrore, però, era tutto un altro discorso.
Dopo qualche minuto e due respiri profondi, finalmente Davronche si decise: una nuvola oscurò la luna, facendo calare il buio sulla città e permettendo al giovane di scattare verso uno scheletro quasi completamente disseppellito poco distante da lui. Vedeva abbastanza bene da poter riconoscere il femore, afferrarlo e scappare nella direzione opposta a quella da cui era venuto: a contatto con la mano l'osso era freddo, secco, gli sembrava più fragile di quel che sarebbe dovuto essere. Respingendo un moto di disgusto, il giovane ladro continuò trionfante la propria corsa, prossimo a rituffarsi nei vicoli. Ma proprio quando stava per essere inghiottito dal buio dei palazzi, si ritrovò a sbattere il muso in terra: l'osso gli cadde di mano, rotolando via.
- A quanto pare voi mocciosi non avete rispetto nemmeno per i defunti.
Dritto disteso in terra, Davronche alzò lo sguardo: di fronte a lui troneggiava un uomo alto e massiccio. Aveva i capelli neri e lunghi fino alle spalle, la mascella squadrata e un folto paio di baffi neri. Alla luce della luna Davronché potè distinguerne lo sguardo: fermo e penetrante, in due occhi neri come il carbone. A coronare il tutto e sancire la definitiva sfortuna del ladruncolo, l'uomo indossava quella che sembrava essere proprio una divisa da gendarme.
- Allora, moccioso? Hai qualcosa da dire?
- Ehm... Io stavo solo passando per di qui, non so cosa intende...
- Non mi raccontare fesserie, sei venuto a rubare nel cimitero vero? A rompere qualche lapide per divertirti? Dovrei portarti dritto in caserma.
Le cose volgevano al peggio e Davronche non sapeva che pesci prendere. Steso a terra, dolorante e immobile, con un gendarme prossimo a chiudergli le manette ai polsi, pregò silenziosamente San Dismà affinchè lo tirasse fuori dai guai.
- Ma per stasera mi sento buono. Mettiamola così, fai una cosa per me e potrai andartene.
Davronche lo fissò con sospetto:
- Cosa dovrei fare?
L'uomo, di rimando, gli ghignò: – È molto semplice: leccami la suola dello stivale destro e augura lunga vita al sovrano e alla monarchia. Fallo e potrai andartene. Altrimenti ti aspetta la galera, se non peggio.
Davronche fissò l'uomo dal basso verso l'alto per qualche attimo, in silenzio. Quindi, steso com'era di fronte a lui, alzò la testa quanto bastava per sputargli sui piedi. L'uomo rimase immobile, guardandolo.
- Molto bene. Avrai ciò che meriti.
Davronche lo vide alzare la mano destra e chiuse gli occhi, pronto a ricevere il colpo. Ma dopo secondi interminabili si rese conto che il colpo non arrivava. Si azzardò ad aprire gli occhi, solo per vedere quella stessa mano tesa di fronte a lui, in un'offerta di aiuto.
Confuso e ancora pieno di sospetto, ma troppo spaventato per rifiutare quell'occassione, la afferrò e si alzò in piedi. E mentre lo faceva notò due cose.
La prima era che la notte attorno a lui si era popolata: in cima ai tetti, da dietro i muri, sbucate fuori dall'aria stessa, stavano una decina di persone – uomini e donne, per la maggior parte vestiti di stracci e tutti quanti accomunati dall'inconfondibile lezzo della povertà. I loro sguardi erano tutti su di lui: alcuni, notò, davano di gomito ad altri. Altri ridevano, ed altri ancora si limitavano a fissarlo a braccia conserte.
La seconda cosa che notò fu la cicatrice larga un pollice che attraversava da parte a parte il palmo della mano destra dell'uomo. Quello stesso che ora, sorridendo con una malizia quasi diabolica, gliela porse da stringere: lo scintillio nei suoi occhi era una promessa di follia, successo e insieme ambizione.
- Ben fatto, Davronche. Benvenuto alla corte del Re.

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Se solo sapessi leggere i pensieri della gente

di Chiara Zanini

Némilie si ficcò le mani nelle tasche, lasciando vagare lo sguardo sulla marea di gente. Incredibile: uomini in frac e donne in abiti di seta si mescolavano a una folla di cenciosi, gomito a gomito l’uno con l’altro. Sembrava che l’intera Parìs si fosse raccolta nella piazza, ad ascoltare quel forsennato che tutto a un tratto era salito su una panchina e si era messo a sproloquiare contro il re. Strano solo che lo lasciassero parlare, e che in giro non ci fosse nessun gendarme a tirarlo giù da quel palco improvvisato per appenderlo a una forca.
Fece spallucce, smise di ascoltare: aveva ben altro per la testa. Allungò il collo, per vedere dove si era cacciato Davronche, e ridacchiò tra sé quando lo intercettò, a pochi passi di distanza, mentre adocchiava la borsetta di raso di una riccona, che seguiva il discorso dell’oratore annuendo con tanta enfasi da far ballonzolare su e giù la pappagorgia.
Némilie si raschiò la gola per catturare l’attenzione del suo amico e gli fece un cenno con due dita, indicando un uomo in redingote che era giusto davanti a lei e le dava le spalle: con gli spilloni d’oro con cui teneva ferma la cravatta, che aveva intravisto quando il tizio si era girato a osservare la folla, avrebbero campato per decenni. “Ecco il nostro pollo” pensò, sorridendo tra sé quando intuì che Davronche aveva capito al volo le sue intenzioni.
Fu lui a partire per primo. – Signore? Può dirmi, per favore, chi è quel tipo? – domandò all’uomo con l’aria più innocente del suo repertorio. Straordinario. Quando fingeva a quel modo, sarebbe stato capace di fregare anche sua madre. Se solo avesse saputo chi era.
 – Si tratta di un contestatore del sovrano. Uno che non gradisce i metodi di governo del re – rispose la sua vittima.
Némilie prese un respiro per farsi forza. Si avvicinò all’uomo, fingendo di essere spintonata dalla calca. Fece scattare la mano santa.
Esultò dentro di sé, quando acchiappò entrambi i fermacravatta in un colpo solo.
Ma qualcosa andò storto. L’uomo ruotò su se stesso, l’afferrò per un braccio con tanta forza da strapparle un grido e le fece scattare una manetta intorno al polso.
Oh cielo.” Per un istante, Némilie restò immobile, fissando raggelata il metallo lucido che le pendeva dal braccio.
Davronche s’intromise prima che l’uomo riuscisse a chiudere anche l’altra manetta. Gli pestò un piede con tanta foga da farlo muggire di dolore, la prese per mano e la strattonò via, facendola correre a perdifiato tra uno spettatore e l’altro.
Per San Dismà. Se non fosse stato per lui, sarebbe finita in una cella ancora prima di trovare il fiato per gridare.
Davronche la cacciò in un vicoletto secondario, la costrinse a correre rasente un muro, la spinse in una piazza che, all’opposto della precedente, era deserta. Si guardò un paio di volte dietro le spalle; dovette convincersi che l’uomo non li aveva inseguiti, perché rallentò il passo fino a fermarsi.
Per la miseria. Quello era un gendarme! – eruppe Némilie.
– Già. Travestito da nobile per non farsi scoprire – sibilò Davronche a denti stretti, afferrando le manette e scuotendole un paio di volte con aria contrariata. – Non si fa così, eh! Uno deve presentarsi, prima di arrestarti. No?
Per tutta risposta, Némilie sbuffò.
Se solo sapessi leggere i pensieri della gente” pensò, “mi sarei accorta che quello lì era un poliziotto.”
Ma Némilie lo trovò, un modo per leggere i pensieri della gente.

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