Centauromachia
Libero nel vento
di Spartaco Mencaroni
Il sole scendeva lento dal cielo, compiendo un arco maestoso che dall'alto dell'azzurro splendente lo avrebbe portato ad insanguinare di tinte vermiglie le nuvole basse verso occidente, incendiando il vasto orizzonte sopra i campi di Aeriston. Fermi sulla riva del fiume, allineati come un piccolo esercito, i dodici centauri attendevano impazienti, arando il terreno con gli zoccoli e fiutando l'aria. Con le braccia incrociate sul petto, gonfiavano i possenti muscoli del tronco e delle spalle, dilatando al massimo i polmoni, per assicurare una riserva supplementare d'ossigeno alle loro zampe.
Parson lo sapeva, che in una gara come quella, riservata ai campioni di tutte le tribù, proprio quei piccoli trucchi avrebbero fatto la differenza. Si guardò intorno: c'erano un paio di giovani, poco più di puledri, che a giudicare da come portavano i capelli dovevano venire da qualche villaggio a nord, sulle colline. Erano alti e con le zampe sottili, come se patissero la fame: non li considerò una minaccia, provenivano da un popolo debole e famoso per la propria codardia. Lo preoccupavano molto di più i due colossali esemplari delle marche dell'Ovest: tozzi, robusti, dal manto scuro e corto. Pestavano il terreno come se volessero spaccarlo e, a giudicare dalla dimensione delle loro zampe, avrebbero potuto riuscirci!
Si girò dall'altra parte per scrutare, subito alla sua destra, il possente Tamarin, l'unico altro centauro del suo villaggio ammesso alla gara: teneva gli occhi chiusi, mormorando una preghiera a Bahazatoth. Parson sputò per terra: non aveva voglia di pregare il suo dio. Non credeva che potesse aiutarlo a vincere la corsa, come non riusciva a salvare la sua gente dalla follia che la stava massacrando.
Improvvisamente un suono di corno lacerò l'aria: i centauri si scossero, scalciando e sgomitando per tenere i vicini al proprio posto, sorvegliandosi l'un l'altro. Al suono successivo, rauco e lamentoso, dodici busti atletici e nudi si chinarono in avanti, mentre gli zoccoli raspavano il terreno, strappando l'erba e alzando larghe zolle fangose.
Poi ci fu l'ultimo squillo, e la morbida pianura di Aeriston fu squassata dal ritmo furioso del galoppo.
Parson dilatò le narici, strinse i denti e concentrò tutta la mente sul proprio corpo: avvertiva il pulsare del cuore, che batteva contro il petto come se volesse sfondarlo, la tensione delle cosce possenti, che scaricavano il loro impeto violento sugli zoccoli, affondandoli nella terra come i colpi di maglio. Soprattutto, sentiva il vento fischiargli fra i capelli, strappargli le lacrime dagli occhi, bruciargli la gola per entrare nei polmoni, gonfiandoli allo spasimo.
La mente sgombra, l'anima inebriata di orgoglio e voglia di correre: quando volava così, ad un palmo dalla terra, si sentiva sicuro e irraggiungibile, al di là di ogni minaccia. Più forte dei cacciatori, più veloce dei loro cani. Parson ne era certo, la freccia destinata a colpirlo non era ancora stata costruita; e anche se non sapeva come sarebbe andata a finire la gara, in quel momento il giovane maschio era perfettamente felice.
Se l'amore non esiste
di Chiara Cini
“Se l'Amore non esiste, cos'è che manda avanti il mondo? Mi sono sbagliato così tanto, ero forse cieco? Quindi è per questo motivo che i centauri si stanno estinguendo, pagano per non essere in grado di provare il più alto dei sentimenti...”
I pensieri di Bahazatoth viaggiavano senza controllo mentre lui sedeva in modo scomposto nella locanda di Koti, ringraziando il cielo che la birra facesse egregiamente il suo lavoro.
Trascorreva le sue giornate là, Bahazatoth, portandosi dietro un fardello troppo pesante per le sue spalle umane. Oltre alla birra, che lo annebbiava temporaneamente, lo confortava trovare il sorriso di Jocelyn, l'avvenente cameriera della locanda. Non era una ragazza qualunque, ma una dotata studentessa della scuola di magia, che lavorava alla locanda per raggranellare qualche soldo. Jocelyn guardava Bahazatoth con interesse, rapita dal suo fisico scolpito e dall'età indefinibile dell'uomo.
“Se sapesse la mia vera storia non mi guarderebbe più così”, pensò un giorno Bahazatoth, ma non fu in grado di completare la sua riflessione perché nel locale irruppe, senza preavviso, un Centauro.
Le nozze della Principessa dei Centauri
di Salvatore di Sante
- Vuoi tu Parson prendere Luma...
Era un giorno di festa in tutto il Reame: al Bosco delle Unioni si stava celebrando il matrimonio del secolo.
Le ghirlande di fiori tese tra un albero e l'altro, le farfalle che danzavano nel cielo turchino, gli uccelli che cinguettavano. E tutti che aspettavano col fiato sospeso quel sussurro, il fatidico monosillabo.
Un mago aveva persino creato un arcobaleno che attraversava la cascata, a incorniciare i due giovani in piedi, o per meglio dire, sugli zoccoli di fronte all'altare.
- Vuoi tu Parson prendere Luma...
Luma, la principessa Luma, a cui le ancelle avevano spazzolato coda e capelli e li avevano poi cosparsi con unguenti profumati.
- Vuoi tu Parson prendere Luma...
Luma con il raffinato velo di pizzo che dalle spalle ricadeva sulla groppa premurosamente strigliata.
- Vuoi tu Parson prendere Luma...
Luma che adesso si era voltata e lo guardava con aria interrogativa.
- Vuoi tu Parson prendere Luma...
Gli ospiti che dallo stupore iniziavano a considerare l'imbarazzo... Centauri perlopiù, alcuni maghi, qualche nano e pochissimi umani.
- Vuoi tu Parson prendere Luma...
Il re che batteva gli zoccoli nervosamente, stringendo i denti dietro le labbra serrate.
- Vuoi tu Parson prendere Luma...
Lui, Parson, un popolano addirittura, per questo sempre osteggiato dal padre della sposa e invidiato da tutti gli altri... lui che dovrebbe ringraziare il destino...
- Vuoi tu Parson prendere Luma...
Lui, Parson, che quel giorno omise il monosillabo. Due lettere che l'avrebbero marchiato a fuoco e a vita, due lettere che avrebbero pesato come un macigno sul suo onore.
- Vuoi tu Parson prendere Luma...
Evidentemente non voleva, Parson, se ora corre via. Galoppa senza voltarsi. Lontano dai pavesi variopinti che congiungevano larici e querce. Lontano dalle corone di tulipani e orchidee disseminate sul prato e tra le sedie degli invitati. Lontano da una folla incredula. Ma allora, gli spruzzi della cascata che irroravano l'arcobaleno, l'altare di quarzo rosa modellato dagli scultori più famosi del regno, a cosa erano serviti?
A lasciare una principessa affranta e un re adirato.
E uno sposo che galoppa, galoppa. Sa perfettamente verso dove. Non l'ha mai saputo più chiaramente. E forse allora i passeri e i verzellini hanno lo stesso cantato l'amore, le farfalle e le rondini non hanno danzato invano in un cielo così azzurro...
Parson corre dalla ragazza dai capelli di rame. La ragazza che tante volte ha portato in groppa, per gioco, e con cui ha condiviso tanti sorrisi.
Corre da lei Parson, è a Jocelyn che corre a dire il suo sì.
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